Guardami negli occhi e ti dirò chi sei
Sono sempre di più gli italiani che vanno dallo psicologo o dallo psicoterapeuta per avere un aiuto ad affrontare momenti particolarmente difficili della loro vita. Eppure, in molti casi, non lo dicono. Per paura del giudizio degli altri o per pudore. Già, perché se all’estero andare dallo psicologo o dallo psicoterapeuta (e dirlo) è la normalità, da noi intorno a queste due figure resistono ancora non pochi pregiudizi. “Ma tu non sei matta, non ti serve”. “Se hai un problema basta che ti dia una scrollata!”. E così via. Cerchiamo allora di sgombrare il campo da qualche falso mito su psicologi e psicologia con l’aiuto del dottor Mauro Savardi, psicologo e psicoterapeuta.
Dottor Savardi, per prima cosa che differenza c’è tra psicologo e psicoterapeuta?
Lo psicologo e lo psicoterapeuta sono due figure professionali ormai diffuse in molti contesti, anche se talvolta persistono rappresentazioni errate o incomplete sullo specifico ruolo, funzioni e modalità di intervento. Mentre lo psicologo nasce da una formazione universitaria, da un tirocinio e da un esame di stato per l’iscrizione allo specifico Albo professionale, lo psicoterapeuta segue una formazione quadriennale post-universitaria ulteriore, accompagnata da momenti di tirocinio professionalizzante e da percorsi di analisi e supervisione personale continui. Psicologia deriva da “Psichè” e “Logos” ovvero Scienza dell’Anima e della Mente. Il suo ruolo è ben specificato all’interno dell’art. 3 del Codice deontologico professionale: “promuovere (condurre, guidare) il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità (…) attraverso gli strumenti della prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione”. Psicoterapia, invece, deriva da “Psychè” e “Therapèia”, cioè “cura” insieme all’azione del “portare, sostenere, reggere”. Lo psicoterapeuta, quindi, aiuta la persona a costruire il linguaggio adatto per dare voce al “sintomo”. La psicoterapia pertanto può essere definita come lo strumento relazionale attraverso il quale l’Inconscio diventa comprensibile.
Ma quali sono i pre-GIUDIZI che ancora accompagnano queste due figure?
Il primo, senza dubbio, è che “lo psicologo cura i matti e chi va dallo psicologo è malato”. In realtà lo psicologo è un esperto di come si costruisce l’esperienza e in particolare la sofferenza individuale. La sofferenza psicologica ha molti modi di rappresentarsi, talvolta così radicali da apparire in contrasto rispetto a ciò che si definisce “normalità”. Tuttavia anche la sofferenza più radicale, quella che può apparire “strana” nel suo modo di manifestarsi, guardandola con attenzione non è molto distante dall’esperienza di tutti, anche se certo più intensa. La cultura dell’efficienza crea modelli basati sulla forza, autocontrollo e negazione o mascheramento di momenti personali di fragilità. Il mito dell’uomo perfetto però non può reggere e ognuno inevitabilmente sperimenta durante la vita momenti critici più o meno intensi. Questi anzi sono una necessità per la crescita. Ed è qui, nell’area delle invalidazioni personali e/o relazionali di carattere emotivo, che intervengono psicologo o psicoterapeuta. Un altro pregiudizio diffuso è che “basta che lo psicologo ti guardi negli occhi e già ha capito tutto, in questo modo potrebbe manipolare la tua mente”. Questa idea, solo apparentemente banale, trova anche altre declinazioni secondo le quali una persona, una volta raccontata la propria problematica, deve attendere che sia lo psicologo a risolvergliela. La psicoterapia è al contrario un progetto complesso che una persona sceglie di intraprendere su di sé e non può prescindere da un suo ruolo attivo nel comprendere ciò che le succede e nello scegliere che cosa fare. Lo psicologo in questo senso può facilitare la comprensione di una problematica specifica e aiutare a definire la propria motivazione a cambiare comportamenti, atteggiamenti, schemi mentali, a elaborare stati emotivi di sofferenza e stallo, ma non può certo sostituirsi a colui che ha di fronte.
Una “paura” che spesso frena a intraprendere un percorso psicologico è quella di dover riportare alla memoria dolorosi traumi infantili rimossi, che sarebbero alla base della sofferenza psicologica…
Questo è un argomento spinoso, tant’è che esistono differenti approcci teorici in psicologia e psicoterapia con opinioni e teorie diverse. La soluzione sta nel mezzo, nel senso che può essere così ma non è detto che lo sia sempre. La teoria del trauma recondito rischia inoltre di porre le persone in un atteggiamento di irreversibilità e passività, perdendo il potere del “momento presente”. Indubbiamente avere delle esperienze traumatiche durante l’infanzia (ma anche in altri periodi della vita) può influenzare negativamente il proprio benessere psicologico attuale, ad esempio rendendo le persone maggiormente vulnerabili e sensibili ad altri fattori stressanti. Questo però non vuol dire che tutte le persone che hanno una difficoltà o una sofferenza nell’attualità abbiano sperimentato esperienze così traumatiche durante la loro infanzia da essersene dissociate al punto da non ricordarle.
E sulla convinzione che la psicoterapia dura molti anni, cosa si può dire? È davvero così?
La durata di una psicoterapia dipende da molti fattori. Generalmente le terapie psicodinamiche hanno una prospettiva di durata maggiore rispetto ad altri approcci teorici come ad esempio quello cognitivo comportamentale. In ogni caso non è automatico il passaggio mentale secondo il quale minor durata della psicoterapia maggior efficienza.
Spesso quando una persona sta attraversando una fase di disagio psicologico, si sente dire che non serve parlare ma agire e darsi una mossa…
Molte volte la sensazione di disagio emotivo è l’aspetto più eclatante del problema, quello più facile da vedere. Pensare che una persona in balia del pathos della sofferenza (psico-pato-logia), di ansia, tristezza, rabbia, colpa, vergogna, debba darsi una scrollata per stare meglio è un atteggiamento sostanzialmente egoistico (se sono gli altri a sostenerlo), per certi aspetti difensivo e talvolta improduttivo. Se una psicoterapia si esaurisse nello sfogarsi non produrrebbe alla lunga nessun cambiamento emotivo, cognitivo e comportamentale e quindi sarebbe pressoché inutile. Il parlare, quindi, non è fine a se stesso ma ha lo scopo di rendere esplicito, attraverso la relazione e l’interazione, la dinamica psicologica, emotiva e comportamentale del singolo, per aiutarlo ad acquisire maggiore consapevolezza di sé.
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